#2 VATTENE: Quando Dio irrompe nel silenzio e riscrive la tua storia
Dalla polvere alle stelle: Come il silenzio di Dio apre sentieri invisibili.
Ho sempre immaginato la rivelazione divina come un grandioso evento cosmico: cieli squarciati, voci tonanti, messaggi inequivocabili. Poi nel precedente articolo ti ho raccontato di come mi sono imbattuto, grazie alla Teologia, in una nuova consapevolezza che oggi voglio esplorare dal punto di vista della storia di Abramo e ho scoperto qualcosa di sorprendente che voglio condividerti.

La parola che irrompe nel silenzio
Immagina la scena: Abramo, un uomo ormai avanti negli anni, vive una vita segnata dall'ombra del fallimento. Non ha figli, sua moglie è sterile, la sua esistenza sembra scivolare nell'insignificanza più totale. Il testo biblico ce lo presenta con una crudezza disarmante: un uomo ripiegato su se stesso, passivo, rassegnato alla propria sorte.
È in questo silenzio immobile che risuona improvvisamente la parola di Dio: "Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò".
Mi ha colpito profondamente scoprire che in ebraico questa espressione suona come "lekh lekhà" - che non si traduce semplicemente come un qualunque “vattene” ma più profondamente "vattene da te", "esci da te stesso". Non è semplicemente un invito a cambiare luogo, ma a spezzare quella bolla di autocommiserazione in cui Abramo si era rinchiuso.
Oltre la nebbia delle nostre sicurezze
Ho riflettuto a lungo su questa dinamica. Quante volte ci aggrappiamo a ciò che conosciamo, anche quando è doloroso o limitante? Le nostre paure, i nostri schemi mentali, le nostre ferite diventano una terra familiare in cui ci rifugiamo.
La rivelazione divina funziona come quelle mattine d'inverno quando il sole appare improvvisamente tra le nuvole. Non lo vedi arrivare, non puoi prevederlo, semplicemente irrompe e cambia tutto.
Per Abramo, la rivelazione non è stata primariamente una questione di nuove informazioni o conoscenze. Al contrario, paradossalmente gli viene chiesto di lasciare tutto ciò che sa, di abbandonare ogni sicurezza. "Parti verso una terra che io ti mostrerò" - senza coordinate GPS, senza mappe, senza garanzie.
Dal "io" al "noi": la trasformazione interiore
Seguendo il percorso di Abramo nei testi biblici, emerge un affascinante cambiamento. All'inizio, le sue domande a Dio sono centrate sul proprio interesse: "Che cosa mi darai?". È prigioniero di una visione autoreferenziale dell'esistenza.
Poi avviene qualcosa di straordinario. Il testo dice che Dio "lo condusse fuori" - un gesto simbolico potentissimo. Abramo viene invitato ad alzare lo sguardo, a contemplare le stelle, a immaginare una discendenza numerosa come i granelli di sabbia. È una prospettiva che lo spinge oltre il confine del proprio io.
Ho avvertito un brivido leggendo che il suo nome cambia da "Abram", che letteralmente significa “padre nobile, elevato” ed è la testimonianza di quanto fosse succube di Terach, suo padre ad "Abraham" ovvero “padre di una moltitudine”. Non è un semplice dettaglio linguistico, ma il segno di una trasformazione interiore: dalla miseria a capostipite del popolo di Dio.
È questo è il miracolo che solo Dio può fare nella vita di tutti quando lo lasciano operare.
ll coraggio di partire senza sapere la meta
Ciò che trovo più affascinante è che Abramo parte senza conoscere la destinazione. Non è un viaggio guidato dai calcoli o dalle valutazioni di opportunità, ma dalla fiducia nella parola ricevuta. Questo lo vediamo perché Dio non dà specifiche sulla terra, perché l'uomo agisce valutando la propria convenienza.
Mi sono chiesto spesso: avrei il coraggio di fare lo stesso? Di seguire una chiamata che mi spiazza completamente, che mi chiede di abbandonare le mie certezze senza garantirmi un approdo sicuro?
Se penso al mio ultimo anno la risposta è "ni". In parte ho stravolto la mia vita, ma chissà se abbandonerei tutto quello che ho per seguire un progetto misterioso.
La rivelazione, ho compreso, non è un'esperienza che chiude e completa, ma che apre e inaugura. Non risolve le domande, ma le trasforma. Non offre risposte definitive, ma invita a un cammino.
Mi ha colpito scoprire che, in realtà, Canaan non era un'idea nuova introdotta da Dio nella storia di Abramo. Era già nel progetto di Terach! Il testo biblico lo dice chiaramente: "Terach prese Abram, suo figlio, e Lot... e uscì con loro da Ur dei Caldei per andare nel paese di Canaan". Ma quel progetto umano si era arenato a Carran, a metà strada. Era rimasto incompiuto.
C'è una differenza fondamentale tra il progetto di Terach e quello di Dio: il primo è un disegno umano che fallisce, il secondo è un cammino che trasforma. La bellezza della Terra Promessa sta nel fatto che quando è un progetto di un uomo, è un progetto che fallisce, mentre quando è un progetto abilitato da Dio, allora diventa qualcosa che ci cambia la vita.
Ciò che rende unico il cammino di Abramo è proprio quel "lekh lekhà" - "vattene da te" - che non è solo un invito a spostarsi geograficamente, ma a rompere il guscio dell'autoreferenzialità. Ho notato come spesso rimaniamo intrappolati nei nostri schemi, nelle nostre aspettative, persino nelle nostre ferite. Costruiamo identità rigide che ci proteggono ma ci imprigionano. La chiamata è sempre a uscire da questi confini.
Mi affascina questa sfumatura del testo ebraico che potrebbe anche significare "vattene da solo". Quante volte mi sono appoggiato alle decisioni altrui, ho seguito percorsi già tracciati per evitare la responsabilità? Abramo, fino a quel momento, si era "crogiolato nell'iniziativa altrui", aveva seguito passivamente il padre. Ora viene chiamato a diventare protagonista della propria vita.
Quando il silenzio di Dio ci mette alla prova
Durante il rituale dell'alleanza, mentre Abramo attende che Dio "passi" tra le parti degli animali sacrificati, cala il tramonto, poi un torpore, infine "terrore e grande oscurità" lo assalgono. È un momento di attesa angosciante, in cui Dio sembra tardare.
Ho ripensato alle lunghe notti insonni in cui le domande si affollano e il silenzio di Dio sembra impenetrabile. A quei momenti in cui la fede vacilla e il dubbio si fa strada. Anche questo, paradossalmente, fa parte della rivelazione: l'esperienza dell'attesa, la pazienza del credere nonostante il buio.
Quello che mi ha colpito, studiando questo passaggio, è il deliberato climax discendente che il testo costruisce. Non è casuale: dal tramonto - quel momento di confine tra giorno e notte, carico di nostalgia - si passa al torpore, poi al terrore, infine a quella "grande oscurità" che avvolge tutto. È come se Dio orchestrasse una discesa agli inferi dell'anima prima di manifestarsi. L'ho sperimentato anch'io: spesso prima dell'alba più luminosa viene la notte più buia.
E proprio quando Abramo è immerso in questo buio spaventoso, Dio gli comunica non una parola di conforto immediato, ma una profezia inquietante: "Sappi che i tuoi discendenti saranno forestieri in una terra non loro; saranno fatti schiavi e saranno oppressi per quattrocento anni". Che strano! Nel momento di maggiore vulnerabilità, invece di rassicurazioni, riceve l'annuncio di sofferenze future.
Mi sono chiesto spesso perché Dio agisca così. Perché tarda? Perché a volte sembra amplificare il nostro smarrimento invece di dissolverlo? Ho capito che c'è una pedagogia divina in questo apparente ritardo. Come un agricoltore sa che certi semi hanno bisogno del freddo dell'inverno per germogliare, così ci sono trasformazioni interiori che possono avvenire solo nell'oscurità dell'attesa.
L'attesa di Abramo viene "dilatata all'infinito". Mi piace questa espressione. Ci sono momenti nella vita in cui il tempo sembra espandersi in un presente interminabile, in cui ogni minuto pesa come un'ora. E quanto più intensamente la sperimentiamo nell'attesa di una risposta esistenziale, di un segno, di una parola che dia senso al nostro cammino.
Ho notato un dettaglio significativo in questo racconto: Abramo non vedrà realizzarsi in vita sua la maggior parte delle promesse ricevute. "Quanto a te, andrai in pace presso i tuoi padri; sarai sepolto dopo una vecchiaia felice. Alla quarta generazione torneranno qui". C'è qualcosa di profondamente liberante in questo: essere parte di una storia più grande di noi, seminare per raccolti che non vedremo.
Mi sono accorto che spesso la mia frustrazione nasce proprio dal voler controllare gli esiti, dal pretendere di vedere i frutti del mio impegno o addirittura dal volere scegliere che raccolti piantare e quanto raccogliere. Ma la fede autentica ci libera dalla tirannia dei risultati immediati. Se Abramo avesse potuto vedere tutto il futuro della sua discendenza, forse sarebbe caduto nella tentazione dell'orgoglio, di considerare quei risultati come "suoi". Invece, quell'attesa buia lo ha purificato, insegnandogli il distacco.
Il braciere fumante e la fiaccola ardente che finalmente attraversano le parti degli animali divisi arrivano solo "quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto". Non è questo anche il ritmo della nostra esperienza spirituale? Le illuminazioni più autentiche spesso giungono dopo periodi di aridità, le certezze più solide emergono dal confronto onesto con il dubbio.
Ho imparato a vedere i silenzi di Dio non come assenze ma come spazi di gestazione. Come in una sinfonia, le pause non sono vuoti ma momenti carichi di tensione che danno significato alle note successive. Il silenzio divino non è abbandono ma invito ad un ascolto più profondo.
Quando attraverso periodi di oscurità spirituale, mi consolarà ricordare Abramo in quella notte: terrorizzato, confuso, eppure – senza saperlo – proprio nel momento in cui Dio stava per manifestarsi nella forma più intensa. Quante volte ciò che percepiamo come ritardo di Dio è in realtà la sua cura nell'attendere il momento perfetto, quando saremo finalmente pronti a ricevere non ciò che desideriamo, ma ciò di cui abbiamo veramente bisogno.
E c'è un'ultima cosa che mi ha fatto riflettere: Abramo finalmente non chiede più spiegazioni. Accetta quella parola dura, quell'attesa angosciante, quel futuro incerto. Non pretende di capire tutto subito. È questa forse la lezione più difficile: accettare che la rivelazione divina contiene anche zone d'ombra, tempi di attesa, promesse che si realizzeranno oltre l'orizzonte della nostra vita.
La rivelazione oggi: ascoltare i sussurri nella tempesta
Cosa significa tutto questo per noi, oggi? In un'epoca di rumore costante, di informazioni incessanti, di risposte immediate, la rivelazione divina conserva il suo carattere di interruzione inaspettata.
Non arriva necessariamente come voce dal cielo, ma attraverso eventi, incontri, crisi che ci interpellano e ci chiamano a uscire dai nostri schemi. È un sussurro che possiamo cogliere solo se disposti ad ascoltare, un invito che possiamo accogliere solo se pronti a lasciare qualcosa.
Mi sono accorto che spesso cerchiamo Dio nelle grandi manifestazioni, nei segni eclatanti, mentre Lui si rivela nei dettagli quotidiani, nelle piccole crepe dell'esistenza attraverso cui filtra una luce inaspettata.
La rivelazione continua a funzionare come per Abramo: ci decentra, ci spinge oltre il perimetro del nostro io, ci invita a guardare le stelle quando siamo troppo concentrati sulla polvere sotto i nostri piedi.
In un mondo che ci vorrebbe sempre sicuri, efficienti, in controllo di tutto, la rivelazione ci ricorda che la vita autentica inizia proprio quando accettiamo di partire senza sapere esattamente dove stiamo andando, fidandoci di quella parola che, inaspettatamente, ha squarciato il nostro silenzio.
La rivelazione può essere accolta solo da un’anima autentica, uno spazio di rara libertà.
Che quel “LEKH LEKHÀ” risuoni forte anche dentro te.