#1 Quando Dio si vela per rivelarsi: il paradosso della rivelazione nell'Antico Testamento
La rivelazione nella bibbia: non una lezione da comprendere, ma un'esperienza trasformativa da vivere
Durante le lezioni del corso di Teologia, mi sono imbattuto in una scoperta che ha stravolto completamente la mia comprensione della "rivelazione divina". Voglio condividerla con te perché trovo affascinante come certe nozioni che diamo per scontate possano essere completamente ribaltate quando ci avviciniamo ai testi originali.
La rivelazione: non è come pensavo
Probabilmente, come me fino a poco tempo fa, immagini la rivelazione divina come una sorta di trasmissione di conoscenze teoriche: Dio che comunica verità teologiche agli uomini. Un po' come quando ascoltiamo una lezione e prendiamo appunti. Ma questa concezione, così radicata nella nostra mentalità occidentale, è molto lontana da quella dell'Antico Testamento.
Il primo dato sorprendente è che nell'Antico Testamento non esiste un termine specifico ed univoco per "rivelazione"! Invece troviamo una ricchezza di termini che descrivono qualcosa di molto più concreto e tangibile di quanto immaginassi.
Tre parole che cambiano tutto
Nel testo biblico, tre verbi ebraici principali vengono utilizzati per descrivere l'incontro tra Dio e l'uomo, ciascuno con sfumature che illuminano aspetti diversi di questa esperienza:
Galah: lo svelamento al confine del sacro
Il primo termine, galah, che spesso viene tradotto come "rivelare", ha una connotazione sorprendente. Non indica un sereno disvelamento di conoscenza, ma porta con sé l'idea di una violazione di confini, dell'esposizione di ciò che normalmente dovrebbe rimanere nascosto.
Questo verbo presenta un'affascinante ambivalenza semantica: oscillando tra la positività dello svelamento e la profanazione di una realtà intangibile. Viene utilizzato nel Levitico per indicare violazioni e trasgressioni, come la "scopertura" delle parti intime o la profanazione di cose sacre.
C'è una saggezza profonda in questa ambiguità: a volte, paradossalmente, è necessario velare per poter vedere. Pensa al sole: nei giorni di nebbia leggera puoi osservarlo direttamente, mentre in una giornata limpida la sua visione diretta ti accecherebbe. Il velo non è sempre un ostacolo alla conoscenza, ma può essere lo strumento che rende possibile avvicinarsi a realtà troppo intense per essere affrontate direttamente.
Nella tradizione, il velo della sposa non era un impedimento, ma una misura che disciplinava il rapporto con qualcosa di prezioso. Il velo proteggeva e custodiva in attesa che si manifestasse la potenza della vita.
Ra'ah: vedere con tutto l'essere
Il secondo verbo, ra'ah, tradotto come "vedere" o "apparire", capovolge completamente la nostra comprensione occidentale della visione. Per noi moderni, vedere è principalmente un atto cognitivo, quasi freddo e distaccato: guardiamo per capire, per analizzare, per possedere mentalmente.
Nel pensiero ebraico antico, invece, ra'ah indica un vedere con gli occhi come esperienza viva, concreta, piena. Non ha nulla a che fare con l'acquisizione astratta di un'idea, ma indica il realismo dell'esperienza, l'immersione nella realtà.
Quando la Bibbia dice che "Dio vide le sofferenze del suo popolo", sta descrivendo un interesse che si traduce immediatamente in azione salvifica. È uno sguardo che genera cura, attenzione, intervento concreto nella storia. E questo sguardo divino trasforma anche chi lo riceve: gli uomini raggiunti dallo sguardo benevolo di Dio diventano a loro volta capaci di vedere e riconoscere il suo operare.
È affascinante notare come per la mentalità ebraica sia più importante l'ascolto che la vista. Noi viviamo nell'illusione di padroneggiare tutto con lo sguardo, ma l'ascolto ci apre al "fuori-di-noi", ci rende ricettivi, vulnerabili alla realtà che viene incontro. Il credente che "vede" nella Bibbia non si appropria di un'idea, ma letteralmente assume la realtà nel suo spessore, nella sua evidenza e nella sua ambiguità.
Yadà: conoscere con la vita
Il terzo termine, yadà', tradotto come "conoscere", completa questa rivoluzione concettuale. Questo verbo sembra apparentemente contraddire quanto detto finora, poiché lo traduciamo come "conoscere", suggerendo un processo intellettuale. Ma penetrando il significato ebraico originale, scopriamo che ha diversi ordini di significato, il primo dei quali è la percezione con i sensi.
Non si tratta di un conoscere cerebrale, ma di un'immersione dentro la realtà. Si tratta di un "conoscere" che si realizza nel contatto fisico, nell'esperienza tangibile, nel rapporto diretto. È un verbo che indica familiarità, intimità, relazione vissuta.
È vero che yadà può includere anche la riflessione intellettuale e l'insegnamento, ma nella mentalità ebraica questo aspetto cognitivo (per noi preponderante) è in realtà secondario o scarsamente rilevante. L'aspetto principale è il contatto diretto con la realtà, l'esperienza vissuta.
Nella concezione biblica, il vero "conoscente" non è un intellettuale, ma un esperto della vita, uno che sa stare nella realtà con saggezza pratica - che paradossalmente potrebbe anche essere un "ignorante" secondo i nostri parametri accademici. Quando Dio "si fa conoscere" non sta trasmettendo informazioni, ma sta permettendo all'uomo di entrare in contatto con lui nella familiarità della vita reale e nel contatto esperienziale.
Un'esperienza che sconvolge
Queste scoperte durante il mio percorso di studi mi hanno fatto comprendere che quando la Bibbia parla di Dio che si rivela, non descrive una lezione di teologia, ma un'esperienza concreta che spesso complica le cose anziché semplificarle.
Contrariamente a quanto potremmo pensare, dopo un incontro con Dio nella Bibbia non c'è necessariamente un "di più" di conoscenza o di tranquillità. Anzi, normalmente quando Dio si rivela, le cose si complicano invece di appianarsi. L'incontro con il divino è descritto come un essere avvolti, un entrare in una realtà più grande che fa prendere atto del proprio limite.
Non è un caso che la rivelazione sia associata a immagini come la nube, il fumo, la nebbia – elementi che non chiarificano ma offuscano la vista. La nube, al di là dell'aspetto meteorologico, simboleggia che mentre prima eri convinto di vedere, ora entri in una parziale oscurità – vieni avvolto in una realtà più grande che ti fa prendere atto del tuo limite e mette a freno l'orgoglio umano.
Anche quando la Bibbia usa l'immagine della luce per la rivelazione, si tratta di una luce pesante, insostenibile, che abbaglia più che illuminare. La rivelazione divina è come essere esposti a qualcosa di troppo intenso per i nostri sensi limitati – un'esperienza che ti decentra e ti spiazza, costringendoti a rivedere le tue coordinate.
La rivelazione non è un evento di insegnamento, al termine del quale ricevi un supplemento di conoscenza, ma un'esperienza concreta che fa percepire l'urgenza di Dio, che entrando in una storia indica la necessità di ri-pianificare il percorso. È un intervento che scuote, che destabilizza, che apre a nuove possibilità.
Una rivoluzione culturale
Ciò che sto apprendendo rappresenta una vera rivoluzione culturale rispetto alle civiltà contemporanee all'antico Israele. Mentre le popolazioni circostanti vedevano gli dèi manifestarsi in modo arbitrario attraverso fenomeni naturali, Israele ha maturato un'idea completamente diversa: un Dio unico che interviene nella storia con un progetto sensato, principalmente attraverso la parola e la relazione.
Questo passaggio da una religiosità basata sui fenomeni naturali a un'idea di rivelazione volontaria e significativa ha rappresentato una rottura radicale con la mentalità del tempo. È come se Israele avesse scoperto che dietro i fenomeni c'è un progetto, un senso, una voce che parla.
Ed è per questo intervento di Dio nella storia che il popolo non rinnega la storia (come avviene in altre filosofie o religioni che vedono il corpo materiale come un ostacolo alla liberazione spirituale).
Perché condivido queste scoperte
Mentre studio questi concetti, sento il desiderio di condividerli perché ribaltano molte delle nostre concezioni moderne. Spesso ci avviciniamo ai testi antichi con categorie mentali contemporanee, perdendo così la ricchezza e la profondità del loro significato originale.
La rivelazione nell'Antico Testamento non è un processo intellettuale, ma un'esperienza esistenziale. Non è l'acquisizione di una dottrina, ma l'incontro con una Presenza che cambia la direzione della vita e della storia.
Non so se per te è lo stesso, ma per me queste nozioni hanno profondamente cambiato il mio approccio ai testi sacri. Mi hanno fatto capire che la fede biblica non è principalmente un sistema di credenze da accettare intellettualmente, ma un'esperienza di incontro da vivere nella concretezza della storia e delle relazioni.
C’è un Dio che mi aspetta, che viene ad incontrarmi ed ha un progetto per me.
Nel nostro mondo dominato dall'informazione, forse abbiamo qualcosa da imparare da questa concezione più incarnata e concreta della conoscenza. Forse la vera sapienza non si trova solo nei manuali, ma anche nell'esperienza viva della realtà e nella disponibilità a lasciarsi interpellare da ciò che ci supera.