#3 Ho scoperto il potere nascosto nella mia fragilità (e ha cambiato tutto)
In un mondo ossessionato dalla perfezione, il potere rivoluzionario della vulnerabilità accolta
Mentre scrivo queste righe, siamo immersi nella Settimana Santa, un periodo che ci invita a contemplare il più grande paradosso della fede cristiana: la forza che emerge dalla fragilità più estrema.
Non riesco a smettere di pensare a quanto questo tema risuoni potentemente nella mia vita. Quante volte ho cercato di nascondere le mie debolezze, di apparire forte a tutti i costi, di costruire attorno a me un'armatura impenetrabile? Eppure è proprio nei momenti in cui questa armatura si è incrinata che ho potuto sperimentare una trasformazione autentica.

Il paradosso del Getsemani
Il silenzio del giardino del Getsemani è rotto solo dal respiro affannoso di un uomo in profonda angoscia. "Padre, se vuoi, allontana da me questo calice". La voce di Gesù trema nell'oscurità. Non è una preghiera trionfale, non è l'invocazione di un superuomo. È il grido di un uomo che affronta la fragilità della sua condizione umana.
Mi colpisce sempre l'onestà disarmante di questa scena. Il Figlio di Dio non recita una parte, non indossa una maschera. Suda sangue, trema, supplica. Si mostra vulnerabile.
E proprio qui, nel punto più basso, nel momento di maggiore fragilità, avviene qualcosa di straordinario: "Non la mia, ma la tua volontà sia fatta". È in questo abbandono, in questa accettazione della propria vulnerabilità che si manifesta la vera forza.
Abramo e il mio personale deserto
Nell'ultimo anno ho attraversato uno dei periodi più difficili della mia vita. Per la prima volta, mi sono fermato davvero. Ho spento il rumore, ho abbandonato le distrazioni e ho guardato in faccia ciò che realmente mi scaldava il cuore. È stato doloroso e liberatorio allo stesso tempo.
Mi sono ritrovato ad identificarmi profondamente con Abramo. Un uomo ormai avanti negli anni, apparentemente fallito secondo i criteri del suo tempo. Senza figli, con una moglie sterile, la sua esistenza sembrava scivolare nell'insignificanza. Eppure, proprio nel momento della sua massima vulnerabilità, riceve quella chiamata: "lekh lekhà" - "vattene da te stesso".
Anch'io ho dovuto ascoltare quella chiamata. Ho dovuto accettare cambiamenti enormi, inseguendo non la strada più facile, ma quella che poteva dare compimento autentico alla mia vita. Mi sono slegato da una condizione di schiavitù personale. Non era colpa di nessuno, solo mia. Come Abramo, ero rimasto bloccato a Carran, a metà del viaggio, in un territorio familiare ma sterile.
Mi ha sempre colpito come la Bibbia non nasconda mai la fragilità dei suoi protagonisti. Non abbiamo a che fare con supereroi dalla fede incrollabile, ma con uomini e donne che dubitano, cadono, si rialzano. La loro grandezza non sta nell'assenza di debolezza, ma nel modo in cui la attraversano e la trasformano.
La croce: quando la debolezza diventa potenza
C'è un passo di Paolo che mi torna spesso alla mente in questi giorni: "Quando sono debole, è allora che sono forte". Parole che suonerebbero assurde in qualsiasi altro contesto, ma che alla luce della croce assumono un significato rivoluzionario.
Guardando il crocifisso, vedo l'immagine più estrema di fragilità: un uomo nudo, torturato, abbandonato persino dai suoi amici più cari. "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" è il grido che squarcia il cielo scuro del Venerdì Santo.
Eppure, proprio quel corpo martoriato, proprio quel momento di apparente sconfitta totale, diventa il fondamento della fede cristiana. La croce, simbolo di vergogna e debolezza, si trasforma nel segno più potente di amore e redenzione.
Non è un caso che tutta la nostra fede si fondi su questo paradosso. Il cristianesimo non è la religione dei forti che non hanno bisogno di nulla, ma di coloro che riconoscono la propria fragilità e proprio in essa scoprono la presenza trasformante di Dio.
La teoria non basta: attraversare il deserto
Per una vita intera ho sempre avuto la risposta giusta nella teoria. Potevo parlare eloquentemente di sofferenza redentrice, di crescita attraverso le difficoltà, di abbandono fiducioso. Le mie parole suonavano convincenti, persino ispirate.
Ma la verità? Ho sempre schivato il dolore, aggirato le difficoltà, evitato le situazioni che mi facevano sentire vulnerabile.
Questa disconnessione tra ciò che predicavo e ciò che vivevo mi ha reso terribilmente incoerente. Fino a quando non ho avuto altra scelta che attraversare il mio personale deserto.
È nella Settimana Santa di quest'anno che comprendo finalmente quanto il passare attraverso le proprie vulnerabilità sia il vero ponte con la vita piena vissuta con gioia. Non c'è altra via. Non esistono scorciatoie o percorsi privilegiati.
Mi vengono in mente le parole che Dio rivolge ad Abramo: "Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle". È un invito ad alzare lo sguardo proprio quando tutto sembra perduto, a immaginare possibilità nuove proprio quando la realtà presente appare chiusa in un vicolo cieco.
Non è un invito a negare la propria condizione di fragilità e fallimento, ma a vederla come il terreno in cui può germogliare qualcosa di inaspettato. Ed è esattamente ciò che sto sperimentando.
L'oscurità necessaria
C'è un dettaglio nel racconto dell'alleanza con Abramo che mi ha sempre turbato: prima dell'incontro con Dio, "terrore e grande oscurità" lo assalgono. È un momento di attesa angosciante, in cui Dio sembra tardare.
Ho sperimentato anch'io quelle notti insonni in cui le domande si affollano e il silenzio di Dio sembra impenetrabile. Quei momenti in cui la fede vacilla e il dubbio si fa strada.
Eppure, proprio come per Abramo, anche per noi quell'oscurità può rivelarsi necessaria. È nello spazio vuoto dell'attesa che impariamo a desiderare veramente, è nel buio che gli occhi si abituano a riconoscere anche la più piccola luce.
La Settimana Santa ci ricorda che il sabato di silenzio, quel giorno in cui il corpo di Gesù giace immobile nel sepolcro, non è un tempo morto, ma un tempo gravido di vita nuova che sta per esplodere.
Trovare forza nella fragilità: un percorso concreto
Come possiamo allora trasformare i nostri momenti di fragilità in opportunità di crescita? Non esistono formule magiche, ma percorsi concreti che possiamo intraprendere:
Accogliere la vulnerabilità: il primo passo è smettere di combattere contro la nostra fragilità. Non negarla, non mascherarla, ma guardarla con onestà. È il nostro "lekh lekhà", il nostro invito a uscire da una falsa immagine di noi stessi.
Condividere il peso: sia Abramo che Gesù non affrontano la loro fragilità in solitudine. Abramo ha Sara e una comunità, Gesù chiede ai discepoli di vegliare con lui. Le nostre debolezze perdono parte del loro potere distruttivo quando le condividiamo con chi può accoglierle senza giudizio.
Ascoltare il silenzio: nei momenti di fragilità tendiamo a riempire il vuoto con rumore, distrazioni, attività frenetiche. Eppure è proprio nel silenzio che possiamo ascoltare quella voce sottile che ci invita a trasformare la nostra debolezza in qualcosa di nuovo.
Guardare le stelle: come Abramo, anche noi siamo chiamati ad alzare lo sguardo, a vedere oltre l'apparente sterilità del presente. Non per fuggire dalla realtà, ma per immaginare possibilità che ancora non possiamo vedere.
Attraversare il sabato: la Pasqua ci ricorda che la resurrezione viene dopo l'attraversamento del dolore, non aggirando l'esperienza della morte. Non esistono scorciatoie per la trasformazione autentica:
Bisogna morire per risorgere!
Il sistema che ha fallito
Viviamo in una società che spesso ci spinge a nascondere le nostre fragilità, a mostrarci sempre vincenti, produttivi, efficienti. Sui social media condividiamo vite perfette, carriere in ascesa, relazioni idilliache. La vulnerabilità viene percepita come un difetto da correggere, non come una dimensione essenziale dell'umano.
È questo il sistema che ha fallito: una cultura che non sa più fare spazio alla debolezza, che non riconosce più la potenza trasformativa della fragilità accolta e attraversata.
La croce ci ricorda che la vera forza non sta nell'assenza di vulnerabilità, ma nella capacità di trasformarla in dono. Il corpo martoriato di Cristo diventa pane per la vita del mondo. La ferita diventa passaggio attraverso cui può fluire l'amore.
Il dono inaspettato della vulnerabilità
In questo periodo santo, mentre contemplo la mia vita e il cammino percorso, vedo con chiarezza quanto sia stato prezioso fermarmi e accettare la mia fragilità. Non è stato facile. C'è voluto coraggio per abbandonare la maschera di sicurezza che indossavo, per rinunciare alla comodità di risposte preconfezionate.
Ma è stato proprio in questo spazio di vulnerabilità accettata che ho trovato una nuova libertà. Come quando finalmente ti arrendi dopo aver lottato inutilmente contro la corrente, e scopri che l'acqua può sostenerti se solo smetti di combatterla.
Mentre ci avviciniamo alla Pasqua, ti invito a guardare con occhi nuovi le tue fragilità. Non come nemici da combattere, ma come potenziali spazi di trasformazione. Come terreni aridi in cui, inaspettatamente, può sbocciare la vita.
Ti invito a fare come ho cercato di fare io in quest'ultimo anno così difficile: accogliere il cambiamento anche quando fa paura, ascoltare quella voce che ti chiama oltre le sicurezze apparenti, abbracciare fino in fondo la tua vulnerabilità per scoprire in essa una forza più grande di te.
Perché diventiamo pienamente umani solo quando accettiamo di essere fragili. Ed è proprio nella nostra debolezza che possiamo incontrare un Dio che non si rivela nella potenza schiacciante, ma nella vulnerabilità di un corpo lacerato che continua, ostinatamente, a donare amore.

Che la luce della Pasqua possa illuminare anche i tuoi momenti di fragilità, trasformandoli in spazi di resurrezione.
Buona Pasqua