#7 Sei disposto a tremare insieme?
Quando lo spazio sicuro può diventare una trappola
C’era questa malinconia addosso, stasera. Una di quelle che non ha un nome preciso, che non sai bene da dove viene ma la senti nelle ossa. Ho aperto YouTube Music cercando qualcosa che mi tenesse compagnia, e mi sono trovato davanti al titolo di una canzone di Elisa: “Anche Fragile”.
Non l’ho nemmeno ascoltata subito. Mi sono fermato sul titolo. Quelle due parole mi hanno bloccato lì, con il telefono in mano, a fissare lo schermo. Perché mi è venuta in mente una domanda scomoda: quanto sono davvero disposto a creare uno spazio dove l’altro può essere fragile? Quanto sono capace di ascoltare senza scaricare addosso a chi ho davanti le mie frustrazioni, le mie paure, il mio bisogno di essere io quello ascoltato?
E ancora: quanto lo spazio che offro è realmente sicuro? Privo di tossicità, di aspettative nascoste, di quella fame sottile che ti porta a usare il dolore altrui come specchio per il tuo?
L’estetica della cura
Viviamo nell’epoca degli “spazi sicuri” dichiarati, delle stories Instagram con scritto “DM aperti se hai bisogno”, dei post motivazionali sulla salute mentale. C’è qualcosa di necessario in tutto questo, certo - almeno si parla di fragilità, almeno si ammette che esiste. Ma quanto di tutto questo è reale e quanto è estetica della cura?
Perché una cosa è dichiarare la disponibilità, un’altra è reggere davvero il peso di chi si apre. E il problema non è solo che non sappiamo creare spazi sicuri. È peggio: spesso crediamo di offrirli, ma in realtà stiamo facendo altro.
Capita, quando si è fragili e qualcuno ti dice “puoi parlare con me”, di sentire che finalmente ti viene concesso uno spazio. Uno spazio dove puoi essere quello che sei, dove puoi dire quello che fa male senza dover fingere. E invece, mentre stai ancora cercando le parole per dire quello che ti sta spezzando dentro, arriva la sentenza. Il giudizio mascherato da preoccupazione. “Ma sei sicuro di aver fatto bene?” “Io al posto tuo avrei...” “…eeh, ma se senti queste emozioni è colpa tua, non mia che te le dico” Lo spazio che ti era stato offerto come sicuro diventa un tribunale. Le tue emozioni vengono contestate, il tuo agire viene messo sotto processo, la tua fragilità diventa l’occasione per dimostrarti che sei nell’errore.
Non è cattiveria, questo. O almeno, non sempre. A volte è semplicemente l’incapacità di stare nel disagio altrui. È più facile giudicare che accogliere. È più semplice dare consigli che restare in silenzio ad ascoltare. È meno faticoso dirti cosa avresti dovuto fare che stariti accanto mentre scopri cosa puoi fare adesso. Ma il risultato è lo stesso: lo spazio sicuro si rivela una trappola. E tu, che avevi già fatto fatica a mostrarti fragile, impari che è meglio tenere tutto dentro. Che è più sicuro il silenzio della condivisione.
Quello che non ha nome
E poi c’è un livello ancora più complicato. C’è la fragilità che non ha nome, quella che non si dichiara. La persona accanto a te che dice “tutto bene” ma tu senti che qualcosa si è rotto dentro. Quello che reagisce in modo sproporzionato a cose piccole. Quella che si allontana senza spiegazioni, che nega le proprie ferite anche a se stessa.
Come stai accanto a chi soffre senza saperlo? Come offri uno spazio sicuro a chi non te lo sta chiedendo, anzi, sta dicendo esattamente il contrario? Quello richiede una capacità di presenza che rasenta la profezia - saper vedere ciò che l’altro stesso non vede, restare anche quando non ti viene chiesto, accogliere ferite che non hanno ancora trovato le parole per dirsi.
E quanti di noi ne sono capaci?
Il sistema che ci ha traditi
C’è un problema strutturale qui, non solo individuale. Viviamo in una società che ci chiede di essere performativi anche nelle emozioni. Devi mostrare che “ci sei”, devi dimostrare la tua sensibilità, devi mettere in vetrina la tua disponibilità. Ma nessuno ci ha mai insegnato davvero a stare accanto alla sofferenza. Nessuno ci ha detto che è normale non reggere, che è umano avere paura del dolore altrui, che non siamo tenuti a essere guaritori perfetti.
Così ci ritroviamo in questo cortocircuito: promettiamo più di quanto possiamo dare, e quando ci accorgiamo di non farcela, invece di ammetterlo, ci arrabbiamo. Con l’altro, con noi stessi, con la situazione. E quella rabbia si trasforma in tossicità che riversiamo esattamente su chi pensavamo di aiutare.
Il risultato? Spazi che si chiamano sicuri ma sono campi minati di aspettative non dette, di frustrazioni mascherate da cura, di presenza che diventa peso invece che sostegno.
Tremare insieme
Eppure credo che esista una via d’uscita. E sta in un paradosso che ho impiegato tempo a capire.
La soluzione non è diventare più capaci di offrire spazi sicuri perfetti. È accettare di essere inadeguati insieme.
Il problema degli “spazi sicuri” dichiarati è che presuppongono una dinamica verticale: io sto bene, tu stai male, io ti accolgo nella mia perfezione. Ma è una menzogna. Nessuno sta così bene da poter essere il rifugio perfetto per qualcun altro.
Cosa succederebbe invece se lo spazio sicuro fosse questo: “Io non so se reggo il peso di quello che mi stai dicendo. Forse mi spaventi. Forse la tua fragilità risuona con la mia e mi fa male. Ma non scappo. E se scappo, provo a tornare. E te lo dico - che ho paura, che non so se ce la faccio, ma voglio provarci”?
Non è “ti offro uno spazio sicuro” - che è una pretesa di controllo, di competenza emotiva che non abbiamo. È “costruiamo insieme uno spazio dove possiamo permetterci di tremare, talvolta anche insieme”. Senza maschere.
Perché la verità è questa: la fragilità non è un problema da risolvere. Non sei chiamato a “sistemare” chi hai davanti. Sei chiamato a restare accanto a chi soffre mentre soffre, senza la pretesa di fargli passare il dolore. E questo - restare senza risolvere - è molto più difficile che dare consigli e sparire.
E te lo dice uno che ha passato la sua vita a dispensare consigli e che ha imparato quanto è molto più utile STARE.
Per chi ha fallito
Se ti riconosci in quello che ho scritto. Se ti accorgi di aver promesso troppo. Se hai giudicato quando pensavi di accogliere. Se hai usato la fragilità altrui come occasione per dimostrare quanto tu saresti stato più saggio. Se hai offerto spazi che poi si sono rivelati tribunali e/o condanne a morte.
Non è troppo tardi per riposizionarti nell’onestà.
Meglio dire “non ce la faccio ma voglio provarci ancora” che continuare a fingere. Meglio ammettere “ho sbagliato, ti ho fatto male quando pensavo di aiutarti” che nascondersi dietro buone intenzioni. Meglio una presenza autentica, anche tremante, anche inadeguata, che la performance della cura perfetta.
Perché forse è proprio lì, in quella ammissione di fragilità condivisa, che si apre lo spazio davvero sicuro. Non quello dove uno è forte e l’altro debole. Ma quello dove due persone accettano di essere fragili insieme, di non avere tutte le risposte, di poter sbagliare ma di voler restare comunque.
Alla fine di questo testo ho ascoltato la canzone di Elisa. E nel testo ho trovato una parte in cui mi rivedo molto
Vieni qui
Ma portati anche gli occhi e il cuore
Io so disobbedire questo lo sai bene
E piangiamo insieme che non piangi mai, mai
E non nasconderti con le battute, non mi sconcentrare
Stiamo a vedere dove possiamo arrivare
E ridiamo insieme che ridiamo sempre, sempre, sempre
Ma non basta mai, mai, mai, mai
Mai, mai, mai, mai, mai, mai, mai
Anche fragile. Anzi, soprattutto fragili, insieme.


